Fabrizio Starace
Presidente, Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica

Ci piace aprire il primo numero della Newsletter Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (SIEP) – SIEPNews – ricordando il 40ennale da poco trascorso della Legge 180 con una frase simbolo di Franco Basaglia: “La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile… che si può assistere il folle in altra maniera e questa testimonianza è fondamentale”(Basaglia, 1979). Sta tutto in questa affermazione il senso della contraddizione con la quale – a 40 anni dalla legge che decretò la chiusura degli ospedali psichiatrici – dobbiamo fare i conti, provando a chiederci per quali motivi il modello italiano di salute mentale di comunità stenti ancor oggi ad essere realizzato su tutto il territorio nazionale, e le esperienze più avanzate continuino ad essere considerate l’eccezione che conferma una regola di generale insoddisfazione.

Noi crediamo che la consapevolezza che l’impossibile può diventare possibile debba alimentare la capacità di leggere, nella crisi attuale della Salute Mentale, la difficoltà di attualizzare i principi della 180 in un contesto culturale, sociale ed economico profondamente mutato, favorendo un più approfondito dibattito sulle “invarianze di sistema” che hanno condizionato l’applicazione della Riforma del 1978.

In questo senso, l’analisi delle condizioni attuali del sistema di cura per la salute mentale, i dati finalmente disponibili del Sistema Informativo Salute Mentale, le indagini qualitative sulla qualità percepita e le criticità evidenziate da utenti, familiari e operatori, sono uno degli strumenti migliori per superare certa autoreferenzialità operativa (ma soprattutto culturale) che per scelta, convenienza o necessità caratterizza ancora il mondo della salute mentale in Italia.
In linea con la sua tradizione e i suoi obiettivi statutari, la SIEP intende proseguire – anche con la rinnovata Newsletter – l’opera di sintesi e diffusione delle informazioni disponibili, ponendo l’accento sulle peculiarità del sistema salute mentale italiano, reale “anomalia positiva” nel panorama dei Paesi occidentali avanzati, ma anche sulle profonde, intollerabili disuguaglianze che si rilevano nel confronto inter-regionale e spesso anche all’interno della stesse regioni.

È possibile affrontare i disturbi psichiatrici sul territorio, nei luoghi di vita, attraverso una rete capillare di servizi di Salute mentale di comunità, attraverso una capacità di contatto per oltre 1.600 persone ogni 100 mila abitanti in età adulta e di presa in carico per la metà di esse.

Considerati complessivamente, i dati del Sistema Informativo Salute Mentale testimoniano che la Riforma del 1978 ha realmente determinato una rivoluzione copernicana dei modi di assistere le persone con disturbi psichiatrici. Con il numero dei posti letto più basso dei Paesi Ocse, una frequenza di trattamenti obbligatori che è di gran lunga inferiore a quella di molti Paesi anglosassoni o scandinavi, l’Italia ha mostrato che è possibile fare a meno degli Ospedali psichiatrici (e più recentemente anche degli Ospedali psichiatrici giudiziari) ponendo fine ai trattamenti inumani e degradanti che in quei luoghi si perpetravano. È possibile, cioè, affrontare i disturbi psichiatrici sul territorio, nei luoghi di vita, attraverso una rete capillare di servizi di Salute mentale di comunità, attraverso una capacità di contatto per oltre 1.600 persone ogni 100 mila abitanti in età adulta e di presa in carico per la metà di esse. Tutto ciò impegnando solo il 3.5% del Fondo Sanitario Nazionale!

Le disuguaglianze inter-regionali
Il giudizio sarebbe tuttavia incompleto se non tenesse conto delle profonde disuguaglianze esistenti sul territorio nazionale. Basteranno in proposito alcuni esempi, relativi alla distribuzione inter-regionale del costo pro-capite dell’assistenza psichiatrica, del personale, e dei posti letto ospedalieri e residenziali.

È paradossale che proprio in un periodo in cui la sanità pubblica si avvia con maggior decisione sulla strada della de-ospedalizzazione, della prossimità territoriale delle cure, della domiciliarità degli interventi, il settore della salute mentale – che dalla Riforma del 1978 ha tradotto questi principi in pratica quotidiana – risulti gravemente sottofinanziato.

Il costo pro-capite per residente varia da un minimo di € 45,7 in Basilicata ad un massimo € 148,4 nella Provincia Autonoma di Trento. Le variazioni negative più consistenti rispetto al valore medio nazionale, oltre che in Basilicata si rilevano in Marche, Campania, Valle D’Aosta e Sardegna. È alquanto paradossale considerare che proprio in un periodo in cui la sanità pubblica si avvia con maggior decisione sulla strada della de-ospedalizzazione, della prossimità territoriale delle cure, della domiciliarità degli interventi, il settore della salute mentale – che dalla Riforma del 1978 ha tradotto questi principi in pratica quotidiana – risulti gravemente sottofinanziato.

La dotazione complessiva di personale presenta valori che variano da un minimo di 16,9 operatori / 100.000 ab. in Molise ad un massimo di 94,1 in Valle D’Aosta. La media nazionale si attesta invece su 62,4 operatori / 100.000 ab., ed è comunque inferiore allo standard previsto dal Progetto Obiettivo 1998-2000. Questo dato potrebbe peraltro essere errato per eccesso, considerando che in alcuni casi vengono attribuite ai Dipartimenti di Salute Mentale figure professionali (es.: psicologi) operanti in altre articolazioni delle aziende sanitarie (es.: cure primarie). Le Regioni che presentano valori superiori a quello medio nazionale sono Valle D’Aosta, provincia autonoma di Bolzano, Liguria, Emilia-Romagna, Lazio e provincia autonoma di Trento. Una dotazione di personale addirittura inferiore al 50% del valore di riferimento si rileva invece in Molise. Come per i costi pro-capite, anche il numero di operatori presenta un gradiente di variabilità con valori mediamente più elevati al Nord e più ridotti nell’area Centro-Sud.

Il numero di posti letto ospedalieri, pur essendo il valore di riferimento nazionale di poco inferiore allo standard di 1 posto / 10.000 ab. previsto dal Progetto Obiettivo, presenta disparità inter-regionali rilevanti. I valori variano infatti da un minimo di 2,9 posti letto ospedalieri di degenza ordinaria / 100.000 ab. in Basilicata ad un massimo di 15,0 nella PA di Bolzano. Assieme alla Basilicata, un numero di posti letto inferiore al 50% di quello nazionale si riscontra in Friuli Venezia Giulia. In quest’ultimo caso, tuttavia, non siamo di fronte all’impoverimento delle risorse assistenziali, ma piuttosto ad una precisa scelta di politica sanitaria, che vede nella piena realizzazione di CSM aperti h24, e nell’offerta di posti letto presso queste strutture territoriali, una valida alternativa al ricovero ospedaliero.

Infine, quando si considerano i posti in strutture residenziali, i valori variano da un minimo di 9 / 100.000 ab. in Calabria ad un massimo di 158 in Liguria, a sottolineare una situazione di disuguaglianza d’accesso oggettivamente poco tollerabile per i cittadini delle Regioni penalizzate. Un numero di posti superiore al 50% di quello di riferimento si riscontra nelle Marche, in Piemonte, in Valle d’Aosta e in Umbria. Un numero di posti inferiore al 50% di quello di riferimento si riscontra in Calabria e in Campania, a segnalare ancora una volta queste due Regioni come quelle che meno hanno sviluppato un sistema articolato di strutture per le fasi post-acuzie e della riabilitazione. D’altro canto, un’offerta residenziale doppia o tripla rispetto alla media nazionale dovrebbe far riflettere sulla possibilità che si determinino fenomeni di trans-istituzionalizzazione territoriale.

La tenuta del sistema
Si potrebbe osservare, tuttavia, che il quadro nazionale sopra descritto non giustifica una visione pessimistica, e che in fondo – anche se sottofinanziato – il sistema “tiene”. A questa osservazione di apparente buon senso possono essere opposte numerose argomentazioni.

Innanzitutto le già citate, intollerabili disuguaglianze inter-regionali, tanto più odiose in quanto non risolvibili ricorrendo a centri o specialisti di un’altra regione attivando la c.d. mobilità passiva a carico della Regione inefficiente. L’assistenza territoriale, infatti, salvo naturalmente le fasi di acuzie, che richiedono ricovero ospedaliero, è rigidamente prestata ai soli cittadini residenti nell’area di competenza del DSM; né potrebbe essere diversamente, considerando la necessità che essa si realizzi nei contesti ordinari di vita delle persone, per favorirne l’inclusione sociale, abitativa, lavorativa e relazionale. D’altro canto, eventuali fenomeni di dislocazione – che pure si verificano, per scelta o disperazione – da territori impoveriti verso regioni in cui l’offerta socioassistenziale è più efficiente, potrebbero creare vere e proprie concentrazioni epidemiologiche di soggetti svantaggiati, mettendo a rischio la capacità di gestione dei sistemi meglio performanti.

Collegata alla precedente è la riflessione sulla reale capacità dei servizi di intercettare il disagio psichico. È appena il caso qui di ricordare quanto abbiamo documentato in dettaglio altrove relativamente alla discrepanza tra le stime di prevalenza dei principali disturbi psichici e il numero di persone che si rivolgono ai centri di salute mentale: solo nel caso delle psicosi schizofreniche vi è un gap di circa 100.000 persone tra le stime dell’ISS e i dati di accesso ai servizi; i numeri diventano esponenzialmente più alti nel caso di depressione e disturbi d’ansia. È verosimile quindi immaginare che la “prevalenza trattata” non corrisponda alla reale distribuzione del bisogno d’assistenza, quanto alla capacità di offrire una risposta minimamente valida, al netto delle differenze organizzative e dalla capacità di tenuta dei sistemi formali ed informali di welfare locali. Ciò che risulta inammissibile è che in tali condizioni la possibilità di accedere alle cure è condizionata da forme striscianti di selezione, sulle quali non viene esercitato alcun controllo.

Questo tema ne introduce un altro, di estrema rilevanza ai fini della valutazione – non solo quantitativa ma qualitativa – dell’assistenza erogata. Verificato il gap tra bisogno e domanda espressa, possiamo almeno essere ragionevolmente certi che i livelli essenziali di assistenza cui è possibile accedere per una persona con disturbi psichici corrispondano agli standard previsti da linee guida, raccomandazioni, percorsi assistenziali? Ad esempio, nel caso citato delle psicosi schizofreniche, che venga attuato l’intervento multi componenziale ispirato al modello bio-psico-sociale, o piuttosto dobbiamo pensare che lo stesso si limiti alla prescrizione farmacologica e ad episodiche visite di controllo ambulatoriale? Purtroppo le rare ma rilevanti indagini di popolazione condotte in merito ci dicono che la seconda opzione è la regola.

È oggi assolutamente chiaro che “fare salute mentale” di comunità presenta connotazioni molto diverse rispetto a 40 anni fa. Nuovi strumenti, nuove organizzazioni, nuove connessioni inter- ed extra-istituzionali sono necessarie per tradurre in prassi i princìpi della Riforma del ’78. Ma sarebbe sciocco ricercarli senza prima essersi interrogati sui reali motivi che hanno impedito che l’eccezione si trasformasse in regola.