A cura di Salvatore Marzolo
“Come puoi credere ancora che tutti ce la possono fare, quando tu e tutti quelli che conosci sono disoccupati o sottoccupati?
Quando la ricompensa per turni di notte malpagati e mattinate al freddo, se proprio sei fortunato, sono altri turni uguali? Per il capitale non fai mai abbastanza. Non è sufficiente produrre e vendere merci scadenti che nessuno vuole comprare: devi anche essere entusiasta”.
Mark Fisher, 2020
In questo contributo proverò a raccontare attraverso un linguaggio lirico-informale l’esperienza quotidiana attraverso il servizio pubblico di salute mentale. La scelta del linguaggio è funzionale a permettere la frequentazione di spazi non comuni, tenendo a mente Wittgenstein e la consapevolezza che i limiti del nostro mondo sono i limiti del nostro linguaggio.
PRIMO GIORNO NELLA PANCIA DELLA BALENA
“Benvenuto nella tua prima riunione di equipe”, chi parla per primo chi parla di là chi gioca al telefono di qua chi rimane nel corridoio ad origliare chi si nasconde dietro la poltrona chi si dà per svenuto chi fa finta, “Qualcuno è interessato a questa cosa che sta succedendo?”, si inizia un discorso che si trasforma immediatamente in un altro discorso, le voci si accavallano come un battaglione disordinato che esce dalla trincea per scontrarsi con il nemico vicino, “Sono io l’unico che non sta capendo niente qui dentro?”, il telefono squilla il magistrato il citofono un’urgenza dal pronto soccorso “Qualcuno ha sentito il collega del pronto soccorso? Ma è nostro non è nostro è di chi è ma se poi succede qualcosa chi se la prende la responsabilità? ma dove lo mettiamo poi?”.
Stop, fermati un attimo, come stai? Tu qui e ora come stai? È ormai diventata una domanda clandestina, sporca quasi offensiva, come stai nella sua semplice immediatezza, arriva dritto al cuore del problema. Al cuore pulsante che spruzza via sangue venoso non ossigenato abbastanza o affatto. Affanno.
Tu come stai? Noi come stiamo?
Qualche audace osa farsela questa domanda, osa farla. E che risposte ritroviamo? Maremoti di emozioni distruttive, vergogna, colpa, impotenza, solitudine, “ma io non volevo neanche fare questo lavoro”, stanchezza del tipo “non vedo l’ora di andare in pensione”, disaffezione, disimpegno, “ma chi me lo fa fare? Tanto non cambia mai niente qui dentro”, “è inutile dottore, lei è giovane, pure noi all’età sua, sa?”. Allora come facciamo a prenderci cura degli altri se siamo così scassati, frantumati, traumatizzati, spaventati? Sul fondo della medicina difensiva non possono che sostare imperiose la paura e la sfiducia, oltre ovviamente a tutti i fattori geo-politico-culturali-antropologici di un cambiamento costante dei miti e riti dell’uomo. Ma bisogna anche dire che, sul fondo se guardi bene, se sposti le alghe, le incrostazioni del tempo e delle esperienze-dinamite, ancora si vede maldestramente custodita una fiammella tenue sempre pronta a riaccendersi. Ti è mai capitato di vederla? Di sentirne il calore tenue?
Riprendendo alcune riflessioni di Mark Fisher però, un aspetto caratteristico della contemporaneità è che se un tempo i lavoratori si rivolgevano ai sindacati in una situazione di crescente stress, oggi sono incoraggiati a rivolgersi al medico di famiglia, oppure ad uno psicoterapeuta o psichiatra personale e privati, oppure a disertare nell’epoca delle grandi dimissioni, a cambiare lavoro, servizio o aprirsi uno studio privato. Infatti anche il burn out degli operatori sembra essere correlato e interpretato, all’interno del modello biomedico dominante, soltanto in relazione alla chimica individuale del singolo cervello o alle esperienze vissute sempre dal singolo cervello durante la prima infanzia. Anche molti dei corsi di formazione aziendale o di ricerca accademica in materia di burn out sembra investano in una sorta di “volontarismo magico” in cui “tu puoi cambiare il mondo di cui in ultima analisi sei responsabile in modo che non ti provochi più sofferenza”, insegnando pratiche meditative, esercizi fisici, rituali per l’addormentamento. Sempre rivolti all’individuo, al cervello e al corpo individuale. Il burn out, insomma, è colpa tua! In qualche modo appare chiaro che una simile privatizzazione del burn out sia diventata un’altra dimensione assodata di un mondo apparentemente spoliticizzato, all’interno della diffusa convinzione che non esista alternativa alcuna allo stato vigente delle cose. “Qui si fa così”. Riprendendo Toni Negri, invece sembra più opportuno oggi “vivere e soffrire la sconfitta della verità, della nostra verità. Dobbiamo distruggerne la rappresentazione, la continuità, la memoria, la traccia. Ogni sotterfugio al riconoscimento che la realtà è cambiata, e con essa la verità, va respinto. Il sangue è sostituito nelle vene”.
SENTO ODORE DI BRUCIATO
Ma se non è colpa mia allora, con quali altri fattori ustionanti, per l’appunto, sono in contatto quotidianamente?
Due possibili risposte parziali, tra le infinite presenti, penso possano riguardare da una parte il tipo di lavoro che siamo chiamati a fare rispetto all’incontro con la sofferenza dell’utenza; da un’altra parte credo possa riguardare il tipo di contesto culturale-organizzativo in cui questo incontro avviene. Dal punto di vista del mandato istituzionale dei Centri di Salute Mentale, la sofferenza degli operatori risulta inevitabile a causa del concetto di identificazione proiettiva che la Klein prima e Bion successivamente hanno proposto. Questo termine fa riferimento ad un’interazione interpersonale inconscia nella quale il contenitore di una proiezione reagisce ad essa in un modo tale da identificarsi inconsciamente con le emozioni su di esso proiettate. In altre parole sto tentando di dire che questo meccanismo viscerale di comunicazione in situazioni difficili e angosciose in cui la parola ha poco potere rappresentazionale, rappresenta l’ultimo modo per far sentire l’altro come mi sento io: “non posso farti capire come mi sento, allora te lo faccio sentire”. In questo modo quindi si rischia inconsapevolmente di diventare una spugna per tutta la rabbia, la depressione, la colpa, la psicosi dell’altro, e nel nostro caso, dell’utenza da una parte e degli operatori (dall’accettazione alla direzione generale) dall’altra. Cioè in altre parole esistono all’interno dei Centri di Salute Mentale campi di forze inconsce feroci e sanguinarie e allo stesso tempo proprio per questo dotati di energia euristica e trasformativa. Campi di forze con obiettivi espliciti e chissà quanti impliciti, non dicibili. Campi di forze dotati di una storia di angosce e sogni abortiti proprio come la persona che porta un sintomo. Sto dicendo che la possibilità del burn out non solo è una rara evenienza in chi opera in contesti di cura, ma è una certezza. Saremo esposti necessariamente al fuoco! Da un altro punto di vista invece, un’altra chiave interpretativa, è quella di cui Savanarola parla nel suo “Curriculum Mortis”, quando scrive che il lavoro nell’istituzione pubblica, per quanto precario, richiede oggi regolarmente l’esecuzione di metalavoro: la tenuta dei registri, la messa per iscritto dettagliata di intenzioni ed obiettivi, la partecipazione alla “formazione continua”. Insomma sistemi di valutazione e autovalutazione permanenti e ubiqui che generano necessariamente uno stato cronico subclinico di ansietà diffusa che esaurisce le energie, all’interno di contesti in cui la solidarietà viene smantellata insieme al senso di appartenenza e protezione. Il contesto in cui operano infatti le équipe del personale del SSN spesso genera sentimenti di insicurezza e un diminuito senso di identità professionale. Se a questo si aggiunge l’impatto di una giornata in un ambiente carico di tensione, allora è facile capire come il personale diventi potenzialmente sommerso. Invariabilmente questo fatto è accelerato da carichi di lavoro eccessivi, dal continuo cambiamento dei sistemi, da risorse inadeguate e dal sentimento di essere trascurati e sottovalutati dai dirigenti e dall’organizzazione. Ma una buona squadra, solidale e coesa può essere in grado di guidare e di riuscire a sopravvivere a queste sfide restando ragionevolmente in salute se si sente sostenuta da una buona dirigenza e da un ambiente contenitivo. Tuttavia, un team è destinato a soffrire notevolmente se le strutture di gestione sono deboli e se uno o più membri del team, a causa dell’ansia derivante dalla mancanza di contenimento, nutrono il desiderio di influenzare e di controllare il proprio ambiente e le relazioni con modalità disfunzionali e negative Le organizzazioni e i dirigenti spesso dimenticano che la loro risorsa più preziosa può essere il gruppo del personale. Un gruppo di supporto tra operatori sufficientemente buono’ potrà contribuire notevolmente a migliorare le prestazioni di un’équipe, riducendo le assenze per malattia ed assenteismo e creando un ambiente in cui gli individui si sentono apprezzati, rispettati, ascoltati e sostenuti dai colleghi nel loro posto di lavoro.
Insomma che viaggio mirabolante in macchina vuoi fare, se l’indicatore della benzina è in rosso fisso?
ACCENDERE UN FIAMMIFERO NEL BUIO
E allora che fare? Aprire un gruppo di supporto tra pari, tra operatori, direttamente nella pancia in subbuglio della balena? Con il rischio di attivare resistenze feroci, mortifere per una creatura così fragile ancora? Come potersi permettere contatti emotivi viscerali in un clima bellico e sfiduciato cosi subitaneamente? Bisogna essere rispettosi, pazienti, delicati. Serve assumersi la leadership e costruire un gruppo di persone che credono che prendersi cura di sé è già una forma di prendersi cura degli altri, e impegnarsi anche orizzontalmente con i nostri colleghi e verticalmente con la gerarchia che ci comprende e ci orienta (in qualche modo!). Un caffè, una passeggiata, una cena sociale mensile, “non farla da sola la visita, se è un caso complesso la facciamo insieme”, “metto la firma anche io a questa consulenza”. Insomma un costante sgocciolamento sentito di gentilezza, vicinanza professionale, rispetto. “Grazie per quello che hai fatto”, “mi dispiace non sono riuscito ad esserci”, “ti serve una mano, vuoi che ti accompagni?” “Rispondo io al telefono”, “ho portato i cornetti!”. Prendersi cura della persona dentro il ruolo, cura del contesto che forma i fenomeni proteiformi delle nostre esistenze. Un gruppo che si forma è sempre un battesimo, una mente gruppale che solo così può farsi ricettacolo di elementi beta, proiezioni, identificazioni proiettive. La mente gruppale diventa pozione delle streghe, calderone bollente che ribolle, dal quale, se correttamente manu-tenuto, può nascere una stella danzante, una nuova forma geometrica ordinata in equilibrio dinamico in grado di riuscire a dare senso alla condizione umana soprattutto quando questa ultima finisce incastrata negli angoli bui e senza apparente facile via d’uscita del disagio mentale vissuto e curato. Il lavoro è faticoso, entropico in quanto antientropico, e ha necessita di una poliocularità sempre attenta non solo alla dimensione psicologica del gruppo, ma anche a quella organizzativa di ruoli ed autorità, ma anche alle condizioni sociali che insistono nel gruppo di lavoro dall’ esterno delle sue mura, dal territorio insomma dalla comunità locale, ma anche dalle storie personali degli operatori che lo compongono che sono anche loro prosecuzioni di storie familiari e macrogruppali di provenienze disperse chissà dove nel tempo e nello spazio. È un lavoro fine di setting esterno ed interno, è la cura di un bambino appena nato, o meglio rinato, è un fiore che smemorato delle sue stagioni sbuca in pieno inverno. Ma una volta che la fiducia e l’appartenenza iniziano a sentirsi e circolare nel servizio è più facile parlare dei casi clinici, confrontarsi sulla rimodulazione della terapia o suoi progetti riabilitativi, è più soddisfacente andare a lavoro nonostante l’impatto con la sofferenza mentale dell’individuo e della comunità che ce lo invia. Se non sono “io” ma siamo anche “noi” a fare da diga, membrana semipermeabile trasformativa, mi sento meglio.
PROPRIO IO?
Il ruolo di noi giovani psichiatri entrati nelle maglie antiche dell’SSN, forse è quello di ascoltare, assorbire e testimoniare i sentimenti difficili; è impossibile da soli, ma solo con un piccolo gruppo di operatori interessati si può riuscire ad incrementare l’influenza trasformativa che è tutta fondata sul legame e sulla stima reciproca, non sulla leadership di ruolo che nel nostro caso manca. Spesso infatti i direttori dei servizi si ritrovano coinvolti in dinamiche organizzative dipartimentali, in progettualità e burocrazie che li tengono lontani dal gruppo di cui in effetti dovrebbero essere responsabili e timoni. Avere una funzione di leadership nonostante il ruolo da follower risulta quindi una sfida molto interessante e complessa, ma altresì fortunatamente possibile. E questo per noi giovani neoassunti nel SSN è di fondamentale importanza. Non vogliamo in alcun modo ritrovarci accartocciati in pratiche stereotipate, nei rifugi da incubo del “si è sempre fatto così”. Non vogliamo bruciarci in altre parole ma vogliamo rimanere accesi per poter riscaldare, dare ristoro, agli utenti come ai colleghi. Negli ultimi tempi infatti non si fa che parlare della mancanza di personale e di risorse umane. Parafrasando mi sto accorgendo che è il personale che manca in quanto l’intimità, i vissuti emotivi traumatici e non, degli operatori spesso non hanno uno spazio adatto e pensato per fluire e reinventarsi. D’altro canto è l’umanità delle risorse a mancare in quanto neutralizzata e paralizzata spesso da fantasmi persecutori, burocrazie vissute come annichilenti, paura e sfiducia nel nuovo. Il gruppo di supporto tra operatori all’interno di un servizio permette allora di costruire uno spazio-tempo in cui attraverso una metodologia strutturata si possa ravvivare questa energia soffocata affinché sia alla basa di nuovi movimenti e pratiche per la salute mentale degli utenti e degli operatori, all’interno di una promozione più ampia di benessere di comunità e delle istituzioni. Insomma il burn-out non è colpa tua, ma è una responsabilità di ognuno prevenirlo.
Ogni lotta vittoriosa trarrà la sua linfa da persona che condivideranno i loro sentimenti,
specie quelli di infelicità e disperazione e che individueranno la causa di quel sentire comune in strutture impersonali, benché mediate da figure particolari che possono ispirare la nostra avversione collettiva.
Mark Fisher, 2020
Salvatore Marzolo è Dirigente medico psichiatra preso UOSM 15 Piedimonte Matese, DSM ASL Caserta.
Bibliografia
- Mark Fisher. Il nostro desiderio è senza nome. Scritti Politici. Minimum Fax, 2020.
- Toni Negri. Arte e multitudo. Derive e Approdi, 1989.
- Franco “Bifo” Berardi. Disertate. Timeo, 2023.
- Lewin K. Field theory and experiment in social psychology: Concepts and methods. American journal of sociology 1939;44(6), 868-896.
- Bion WR. Esperienze nei gruppi e altri saggi. Armando editore, 1997
- Obholzer A, Roberts VZ. (Eds.). The unconscious at work: A Tavistock approach to making sense of organizational life. Routledge, 2019.
- Guelfo M. Il grande gruppo: osservazione psicoanalitica di istituzioni e insiemi sociali ai margini del caos. Franco Angeli, 2021.
- Perini, M. L’organizzazione nascosta. Dinamiche inconsce e zone d’ombra nelle moderne organizzazioni (Vol. 100). FrancoAngeli, 2007.