Barbara D’Avanzo

Due saggi, a distanza di qualche anno l’uno dall’altro, propongono la rivisitazione del lavoro critico sulla salute mentale condotto in Italia a partire dagli anni della riforma e si accompagnano e si arricchiscono reciprocamente: il contributo di Massimiliano Minelli, “Salute mentale e territorio”, uscito sulla Rivista della Società italiana di Antropologia Medica nel 2020, e il saggio in tre parti di Negrogno e Benedetto Saraceno, “Ma come si curano le malattie mentali?”, uscito su Machina tra giugno e luglio 2023. Di entrambi i saggi, ricchi di argomenti e riflessioni, si riprendono qui solo alcuni spunti.

Massimiliano Minelli ricostruisce la modalità con cui la riforma psichiatrica è stata realizzata a partire dalla fine degli anni ’70 in Umbria, coniugando la visione politica e quella antropologica, l’ultima rappresentata in particolare, ma non solo, da Tullio Seppilli. Il saggio ci aiuta a recuperare altre figure importanti, tra cui quella di Carlo Manuali (ripreso spesso anche da Negrogno e Saraceno). Minelli fa guidare la sua riflessione dal concetto di territorio come teatro vivente di azioni collettive,non quindi come entità amministrativa o, nella migliore delle ipotesi, spazio di sperimentazione di iniziative e modelli nati e sviluppati altrove. Piuttosto, il territorio produce il cambiamento attraverso le proprie dinamiche interne, che, in ottica antropologica, vanno colte e riconosciute affinché esprimano e diano forma alle istituzioni e ai servizi che vi nascono. Anche il processo di superamento dell’ospedale psichiatrico aveva coinvolto il rapporto tra dentro e fuori l’ospedale stesso: analogamente, l’inserimento dei servizi di comunità sul territorio richiedeva il riconoscimento del territorio stesso, e come territorio e istituzioni potessero modellarsi a vicenda (il “rovesciamento pratico” che per Basaglia serviva a reinventare le istituzioni e analizzare quanto avveniva nei territori, potenziali produttori di sofferenza ma anche di cura). È questo anche il terreno di emersione della soggettività, collettiva e individuale al tempo stesso, in quanto il territorio è il luogo in cui è possibile la prossimità necessaria al processo di liberazione e auto determinazione della persona sofferente.
Minelli ci ricorda anche la chiarezza con cui i servizi di salute mentale di Perugia hanno descritto la loro missione di cura in senso politico, il preciso orientamento programmatico che l’amministrazione provinciale esprimeva nel suo regolamento, usando espressioni come “La salute mentale è connessa alla possibilità di dominare conoscitivamente e operativamente la propria condizione esistenziale e i processi che la determinano. La salute mentale non si identifica quindi con un codice di norme di comportamento né con la pura e semplice assenza di malattia.” Di conseguenza la salute mentale non viene tutelata”… espandendo strutture e servizi psichiatrici, ma trasformando profondamente le condizioni e i significati della vita associata in modo da realizzare rapporti umani e modelli socioculturali che pongano il benessere dell’uomo quale valore primo e fondamentale.”
Tuttavia, il lavoro di scoperta delle potenzialità del territorio si accompagnava, negli anni della riforma, alla consapevolezza delle difficoltà di costruzione della teoria di ciò che nella pratica del lavoro sul territorio si andava creando. La natura politica del dibattito e di ciò che si andava costruendo era così formulata di Carlo Manuali: “[…]. L’analisi che noi facciamo della realtà non parte mai dalla malattia, ma parte sempre dalla normalità. Noi consideriamo infatti la malattia come un aspetto della normalità, come un qualcosa, quindi, di più di una conseguenza della normalità. L’operazione che noi facciamo diventa, di fatto e automaticamente, un’operazione critica nei confronti di questa normalità, si pone per forza come un’azione di rottura, anche se dialettica e tesa all’apertura di un discorso.”
Eppure, i servizi per lo più non sono “di” territorio” ma “sul” territorio e sono caratterizzati dalla separazione aprioristica in fasce di utenza, classificata in base ad età o diagnosi (fatte talvolta passare per forme di personalizzazione della cura), o in base agli operatori che vi lavorano e a ciò che essi sanno offrire. Tutto questo ha un’implicazione importante connessa alla privatizzazione del sistema sanitario come resa possibile dal trascurare il territorio come ambito “comune” (e non solo “pubblico”) perché privatamente si possono solo ottenere “prestazioni” di solito fortemente frammentate.
Minelli ci ricorda anche, infine, in che cosa consiste il contributo, ancora utile, di Tullio Seppilli: se parliamo di partecipazione degli utenti alla gestione dei servizi e della cura non possiamo dimenticare che le condizioni di possibilità stanno nel riconoscimento di una soggettività sociale e della partecipazione collettiva e che nel passaggio dal pubblico al comune sono le realtà circoscritte e concrete a fare da terreno di produzione di soluzioni. Minelli ci fa dunque capire come la ricerca antropologica ed etnopsichiatrica riguardino il confronto tra i saperi, le interpretazioni dei problemi di salute mentale e le risposte che ad essi vengono date nella realtà delle diverse società e dei diversi gruppi sociali.

Luca Negrogno e Benedetto Saraceno ripercorrono gli sviluppi della psichiatria antistituzionale e critica in Italia, con incursioni nel mondo britannico. Partono dal presupposto della difficoltà di passare da un sapere fatto di esperienze, e la cui necessità su un piano epistemologico oltre che clinico è chiaramente percepita, ad un sapere strutturato e quindi trasmissibile. Difficoltà, ancora irrisolta nonostante diversi tentativi, che gli autori rinvengono nel fatto che da una parte, la psichiatria antistituzionale, assumendo l’idea che la malattia mentale sia un’etichetta che si sovrappone alle persone e alla loro sofferenza, finisce col non riconoscere le singole malattie o entità nosografiche; dall’altra, la psichiatria antistituzionale finisce col vedere il contesto come più importante di ciò che vi si fa con l’accento su “servizi forti, strutturati, multipotenti” (da qui il titolo un po’ provocatorio del saggio). Quindi, un sapere che fatica a produrre azione, cioè cura.
Ma che cosa ha contribuito alla mancanza di un corpus teorico alla base delle pratiche innovative derivate dalla deistituzionalizzazione? Un fattore che ha contribuito alla mancanza di un sapere coerente e trasmissibile viene rinvenuto nel cuore della lettura politica della salute mentale e del rapporto tra sapere, istituzioni e potere. Gli autori fanno riferimento ad un altro intellettuale di quel periodo, Marcello Cini, che, da fisico, pronunciava parole significative per chiunque si ponga il problema della relazione tra produzione scientifica e rapporti di potere nella società: «Gli sforzi di trasferire all’esterno le conoscenze, le situazioni, le esperienze dei gruppi operai più avanzati sono falliti non soltanto per gli sfavorevoli rapporti di forza sul terreno dello scontro sociale e politico, ma anche per gravi difetti di comprensione di quali siano i concreti canali di mediazione fra le spinte attive nel tessuto sociale e le sedi che assicurano la produzione e la socializzazione del sapere tecnico-scientifico. Detto in altre parole, non è che fosse sbagliata l’intuizione che la scienza e la tecnologia sono attività le cui regole, finalità e modalità sono contrattate nel terreno sociale. Era invece sbagliata l’identificazione degli interlocutori, la scelta delle procedure, l’oggetto della contrattazione. Insomma, non avevamo una teoria affidabile della non-neutralità della scienza» (Cini, 1988).
Ma anche la stessa legge 833 ha portato con sé conseguenze che possono apparire paradossali: riprendendo Maria Grazia Giannichedda e Franca Ongaro Basaglia (1987), si afferma che la strutturazione di un sistema universalistico che si era realizzata nel sistema sanitario emerso dalla 833 formulava in veste sanitaria bisogni sociali e politici che non potevano esprimersi altrimenti, ma con la conseguenza di depotenziare l’attività autenticamente preventiva e sociale del sistema stesso, ridotta di fatto a singole prestazioni mediche.
E, quindi, di fronte alla banalizzazione della cura nella comunità, si sentiva la necessità di “cogliere il malato al di là della malattia”, con uno sguardo sociale – come si manifesta il malessere, quali ne sono i determinanti sociali -, ma anche antropologico – nel privato, nella famiglia, nella cultura locale: guardare dentro alla sofferenza individuale per storicizzarla, ma anche per capirla meglio e non “liquidarla” con una prestazione, magari consistente in una ricetta. Negrogno e Saraceno tornano a “L’Io diviso” di RD Laing: n modo non lontano dalla lettura fenomenologica della malattia, Laing non solo rifiuta la nozione di incomprensibilità della malattia, ma anche l’etichetta di malattia apposta sull’esperienza. Infatti, è l’esperienza di “essere nel mondo” propria e dell’altro la condizione di possibilità di comprendere il vissuto schizofrenico. Mentre nella cultura antistituzionale la questione è mostrare la connessione tra la necessità della follia e la mancata risposta ai bisogni di cui la follia stessa parla, nell’antipsichiatria britannica la questione è consentire al soggetto di riconoscere la propria sofferenza e di ripercorrerla a ritroso, con una regressione liberatoria. Ma non è certo una lettura individualistica della sofferenza. Ci ricorda piuttosto che la lettura della sofferenza va fatta in prossimità della sofferenza stessa che nel suo saggio Minelli riconduceva alla lettura antropologica e politica della malattia.

Massimiliano Minelli. Salute mentale e territorio. Rivista della Società italiana di antropologia medica / 49, giugno 2020, pp. 129-162

Luca Negrogno e Benedetto Saraceno. Ma come si curano le malattie mentali? 20, 27 giugno, 4 luglio 2023: