A cura di Maria Inglese

La Clinica della precarietà
Per proporre una nuova clinica della precarietà e della vulnerabilità (come il confronto quotidiano nel lavoro nel territorio e nelle sofferenze urbane propone) dobbiamo partire dalla ‘precarietà e dalla vulnerabilità’ della nostra ‘povera’ disciplina. La precarietà non ha bisogno della cornice clinica per identificarsi e definirsi. Di contro la clinica, qualsiasi clinica, ha implicito il senso di precarietà, perché provvisoria, pronta a misurarsi e confrontarsi sempre, instabile ed eventualmente, perché no, anche fallace. Il grande errore che la psichiatria continua a perseguire è che pensa di poter definire il proprio oggetto di studio e di azione a priori, in un già dato, un già conosciuto, smettendo i panni della disciplina auto-interrogante. Smettere di auto-interrogare la nostra professione, la nostra azione clinica, il nostro gesto di cura e le ‘conoscenze’ acquisite rappresenta un grande tradimento rispetto alla psichiatria come sapere trasformativo nato dall’esperienza di Basaglia che si appoggia alla migliore tradizione fenomenologica ed esistenziale.

Compaiono oggi domande nuove, incomprensibili, periferiche ai campi disciplinari noti. Che fare? Adattarle alle vecchie risposte, quelle già note della clinica psico-bio-medica? Oppure sfidarle, ascoltarle prima di tutto, auto-interrogarsi e costruire nuove epistemologie, possibilmente collettive?

A cosa servono i collettivi?
Il collettivo è “una rete fatta di umani e di non-umani presi in un insieme di relazioni reciproche e in co-evoluzione”1 che individua dei fenomeni (ontologia), stabilisce piste di conoscenza adeguate al contesto (epistemologia) e soprattutto definisce condotte coerenti con l’esistenza di quel mondo (etica). Il nostro mondo ci obbliga a queste scelte in tutti e tre i campi. Il tempo che viviamo ci illude di avere l’opportunità di non scegliere; noi pensiamo, invece, che la scelta, quella dei collettivi, possa essere una scelta in grado di ridare voce alla nostra disciplina, altrimenti inesorabilmente sempre più povera.
Nei collettivi si pratica e si ospita la co-presenza, costringono alla diplomazia, al parlamento e, quindi, alla negoziazione e alla mediazione. A questo servono i collettivi.

Oltre i recinti del sapere
Angelo Barbato (citato da Saraceno nel suo ultimo libro 2) scrive: “La sola definizione clinica, cioè, non è sufficiente a spiegare la malattia e tanto meno la ‘disabilità’, il cui sviluppo richiede l’ingresso in gioco di altri fattori contestuali o soggettivi… l’importanza dei fattori soggettivi fa emergere prepotentemente il ruolo degli utenti e del loro sapere, alimentando le richieste che da essi vengono di mettere in questione le modalità e l’uso del procedimento diagnostico”.
I limiti del sapere psichiatrico, l’importanza dei fattori sociali (i determinanti sociali sui quali già dal 2014 l’OMS sollecita le professioni e le istituzioni della salute mentale3), la soggettività, il parere dei diretti interessati (per primi i pazienti), lo strumento della diagnosi come co-costruzione di un sapere condiviso sulla sofferenza soggettiva. Barbato, e Saraceno con lui, ci esortano ad andare oltre gli steccati, i recinti, del presunto sapere psichiatrico di derivazione esclusivamente biomedico e di accogliere i saperi altri, prima di tutto dei pazienti, le loro narrazioni, i contributi di scienze altre.
I servizi della salute mentale invece di porsi in uno stato di crisi e di auto-interrogazione continua si sono limitati, scrive ancora Saraceno, ad ‘aggiungere’: aggiungere competenze, nuove professioni, nuove diagnosi, nuovi strumenti “senza peraltro interrogarsi sulla inevitabile trasformazione epistemologica e metodologica che ogni inclusione comportava” (20224).
Prendiamo ad esempio le ‘aggiunte’ che le ipertrofie diagnostiche da DSM V propongono. Siamo passati dal primo DSM, pubblicato nel 1952, e contava 130 pagine e 106 disturbi, alla quinta edizione, uscita nel 2013, con circa 1000 pagine e quasi 157 disturbi (non includendo i disturbi cosiddetti ‘non specificati’).

Cosa ci dice la diagnosi e cosa vogliamo sapere da una diagnosi?
La malattia è un evento trasformativo, inevitabilmente, ma è per lo più un ‘evento’ e come tale segna una frattura tra un ‘prima’ ed un ‘dopo’. Come tale evento possa integrarsi nella storia biografica del soggetto è percorso personalissimo ed intimissimo, talvolta comunicabile, altre volte silenzioso e silenziante.
La malattia, scrive Vittorio Lingiardi, può essere una rivelazione del nostro essere: nel confronto con la mortalità, il limite, “sciagurata occasione di conoscenza di sé e possibile paesaggio e passaggio, trasformativo”5. La diagnosi può quindi aiutare il soggetto nella conoscenza di sé, del suo male e della sua cura. In questa accezione, la diagnosi è sicuramente utile.

Spaesati e vulnerabili
Oggi i servizi del welfare, che ancora esistono ma non sappiamo per quanto tempo, anche se particolarmente frustrati ed esausti (come i soggetti dei quali si devono occupare), hanno un compito da onorare: la clinica della precarietà, della vulnerabilità, della marginalità e dell’invisibilità. La visione che il nostro Collettivo, il Collettivo d’Incontro con le Marginalità6 (CIM), propone nasce da un senso di s-paesamento profondo all’interno degli stessi servizi della salute mentale. S-paesati come i nostri pazienti, potremmo dire; esausti e frustrati come loro, offesi e resi fragili dal quotidiano vivere che sottolinea e approfondisce sempre più disuguaglianze e povertà. S-paesati di fronte a domande emergenti che non trovano ascolto (ancor prima che risposte) nei dispositivi di cura tradizionali. Uno spaesamento verso il qui ed ora della povera psichiatria, di fronte alle assenze che abitano le nostre stanze: assenza teorica, assenza di visione, assenza di pratiche condivise, assenze istituzionali e di comunità, assenza di sane alleanze tra colleghi e tra istituzioni. S-paesamento nel senso che Carlo Ginzburg descrive: “Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale: vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno”7. Da questo spaesamento nascono molte delle inquietudini della clinica della precarietà e della vulnerabilità che vorremmo onorare, trasformare in risorse plurali, inattese e sorprendenti. Nuove visioni, nuove prospettive di comunità, nuove pratiche.

Sfidare l’impensabile
“La psichiatria non è più quella di una volta”, verrebbe da sintetizzare. Riprendo questa espressione da un libro che Morelli e Varchetta hanno dedicato a Francesco Novara, psicologo e collaboratore di Adriano Olivetti8. “Il lavoro non è più quello di una volta” scrivono gli autori, e propongono di ‘liberare’ il lavoro dai suoi incantesimi, che hanno il nome di flessibilità, precarizzazione, delocalizzazione, povertà economica e sfruttamento. E la lista potrebbe continuare, attribuendo le stesse costrizioni e incantesimi alle ‘nostre’ povertà teoriche ed epistemologiche: doppia e tripla diagnosi, disturbi resistenti al trattamento, recovery (quale recovery? degli operatori o dei pazienti?) e così via.

Una psichiatria che non esiste più, un “non più” che è anche assenza: la storia della psichiatria-deistituzionalizzata, ad esempio, è poco spiegata, insegnata, quasi cancellata direi dai contesti della formazione istituzionali. Una assenza che rimane inspiegabile essendo quella la nostra storia. Una bella storia. La psichiatria di oggi non ricorda e non sa di essere una psichiatria del “non più”: non più manicomio, non più contenzione, non più internamento. Ma una psichiatria senza storia non può pensarsi presente e capace di futuro. Non siamo più in grado di convincere (come intuiva Basaglia) che esistono alternative alla semplificazione teorica e trattamentale che la psichiatria biomedica ed istituzionalizzata propone. In questa scia si pone la necessità di saper osservare, studiare, interrogare quello che il CIM ha definito l’emergente. Il “non ancora”. Tutto ciò che, per fortuna, non ha ancora una etichetta psichiatrica da presentare. Il “non ancora” sono le sofferenze in cerca di destino, le soggettività in cerca di forma e di linguaggio, di accoglienza come quelle dei migranti e richiedenti asilo che non arrivano ai servizi della salute mentale, sono le domande di futuro che portano le adolescenze reclamando il diritto al mal-essere di fronte al furto di futuro e di aspirazioni che li vede coinvolti (lo spiega molto bene Andrea Marchese9); il “non ancora” le domande di senso che rivolgono (a noi adulti) i giovani in conflitto che sfidano i dispositivi educativi-normativi-psichiatrici che li vogliono includere (in-chiudere, direi). Sono, tutte queste esperienze, emergenti che sfidano e interrogano. Come sono da sempre le marginalità. Tutto ciò che non sta al centro ma appunto ai margini, nelle periferie dei dispositivi teorici e conoscitivi, e che è ricco di un potere trasformativo. Al centro stanno le istituzioni, granitiche e immobili, che non cambiano; ai margini invece stanno le esistenze offese, violate, inascoltate, ed è lì, ai margini, che avviene il cambiamento ed è possibile accompagnare la trasformazione. E co-apprendere.
Diventa urgente (emergente, amiamo dire) saper incontrare le marginalità come il piccolo collettivo si propone di fare. Incontrare vuol dire ascoltare, vedere, mettere mano, immaginare percorsi inediti, saper valorizzare il protagonismo dei diretti interessati, sfidare logiche inadeguate nell’organizzazione dei servizi, pensare l’impensabile (o l’impossibile-possibile del quale parla Basaglia, nelle sue Conferenze Brasiliane).

Esseri invisibili
In un articolo apparso qualche anno fa in piena pandemia (nello slogan insopportabile che ‘andrà tutto bene e siamo tutti sulla stessa barca’) Salvatore Geraci e Alessandro Verona scrivono: “Ci sono persone, gruppi di popolazione a livello locale, nelle nostre città, tra le nostre case, e intere comunità nazionali che non esistono nei programmi di mitigazione, di prevenzione, nei ‘ristori’ o nelle future politiche di rilancio. Invisibili ma presenti. Sono tutti coloro fuori dagli standard amministrativi nostrani o esclusi dalle cronache internazionali, sono quelli sotto casa ma senza una casa e quelli di paesi lontani dalle rotte del benessere e dei diritti”10. Tante sono le ‘manifestazioni’ dell’invisibilità nel nostro mondo del welfare; quella più intollerabile è l’invisibilità delle persone, anche se vediamo i loro bisogni. Vedere i bisogni ma non vedere le persone che li portano è il segno di una indifferenza strutturale. I servizi della cura oggi faticano ad incontrare e a far emergere i bisogni che le persone portano. Yalom in un suo libro invita, citando una frase del poeta Rilke, ad amare le domande che le persone portano, ma esorta ad amare anche chi quelle domande le pone.

Capita sempre più spesso (ne siamo testimoni diretti) di imbattersi in queste storie marginali e di invisibili fragilizzati dallo stesso sistema di cura. È la storia di B. verso il quale proviamo un forte senso di colpa e di disagio: epilogo drammatico in una giovane vita molte volte offesa.
Una persona senza dimora viene ricoverata per un malessere e una volta superato il problema viene dimessa e, spesso, viene dimessa direttamente sulla strada da dove è stata presa. Nella nostra esperienza diretta (nome e cognome della persona e dei ‘colleghi’ ospedalieri li omettiamo per imbarazzo istituzionale) è stato ancora peggio. B. viene ricoverato per trauma cranico e varie ferite dopo essere stato picchiato in strada. Durante la degenza, a causa del trauma, sviluppa uno stato confusionale detto ‘delirium’, durante il quale è disorientato, agitato; viene quindi trasferito da un reparto internistico per la difficile gestione delle sue manifestazioni comportamentali seguenti al trauma cranico e all’abuso di alcool con conseguente astinenza. Per questa difficile gestione in reparto, dove sono costretti a contenerlo, viene trasferito nel reparto psichiatrico per acuti, dove viene s-legato, e dopo una stabilizzazione clinica viene dimesso, anche se è diventato epilettico a causa del trauma cranico, senza una attivazione dei servizi, sociali e psichiatrici, accolto presso un dormitorio gestito da un ente del terzo settore, quindi rimesso al buon cuore dei volontari. Da questo punto in poi abbiamo intercettato la persona e offerto (poca roba rispetto ai suoi bisogni reali!), una presa in carico al CSM, una continuità delle cure epilettiche presso un ambulatorio culturalmente orientato della città, il monitoraggio con gli operatori dell’accoglienza informale, un lavoro fianco a fianco con operatori legali per formalizzare la sua condizione di rifugiato e trovare un percorso adeguato. Tutto questo procede con molte difficoltà: B. soffre di crisi epilettiche, viene più volte portato in PS, riprende a bere, ha allucinazioni che vengono raccontate in un contesto di sicurezza culturale (e che non aveva mai detto a nessuno) in quanto torturato e vittima di violenza nel suo paese d’origine dal quale è dovuto scappare. Procediamo fino all’epilogo: un nuovo ricovero questa volta per motivi internistici, un focolaio infettivo ai polmoni, sembra, ma poi si scopre che B. ha un tumore, ormai esteso e non curabile. B. muore nel letto di ospedale. La salma resta in obitorio per oltre un mese, sottoposta a fermo giudiziario (perché?), sbloccata ha ripreso la strada del ritorno, verso ‘casa sua’, verso la famiglia.

Le associazioni e il terzo settore, che in questa storia hanno avuto un ruolo importante e fondamentale per evitare una marginalizzazione ulteriore alla giovane esistenza di B., come spesso si osserva, rischiano di sopperire alle assenze e agli abbandoni istituzionali, forniscono quelle risposte immediate e primarie, spostano l’asse dell’intervento dal livello istituzionale a quello del ‘buon cuore’. Ma non può bastare.
Riferendoci a quanto narrato, abbiamo riconosciuto il suo bisogno (almeno in parte), siamo intervenuti inventandoci prassi che non esistevano, ma anche se siamo stati efficaci in parte B. è tornato nel cono dell’invisibilità; per persone come B. dovremmo essere più capaci, più prossimi, più eguali. E non smettere di interrogare i nostri servizi, anche quelli più innovativi, anche quelli più inclusivi.

Le occasioni della marginalità
La salute mentale ha smesso di praticare l’opera di auto-interrogazione che Basaglia e i suoi avevano inaugurato, criticando e distruggendo l’istituzione manicomiale. Demolendo e sgonfiando l’arroganza teorica che giustificava logiche di internamento nei confronti della sofferenza psichiatrica e altre forme di sofferenza (ricordiamo che in manicomio finivano non solo i ‘matti’ ma anche tutte le forme di fastidio urbano e familiare, dai barboni, agli alcolisti, alle donne che rifiutavano destini scritti da altri). Auto-interrogarsi è necessario nella nostra disciplina per non cadere in forme di neo-istituzionalizzazione che si rigenerano, come una araba fenice, dalle ceneri di ciò che non si vuole più perseguire. La logica dell’internamento permea prima di tutto le menti degli operatori, soprattutto dei dirigenti che devono-dovrebbero tradurre in organizzazione e gestione le sfide del social suffering, al quale Saraceno ci sollecita a prestare attenzione. Tutte le volte che si pensa che un luogo possa risolvere una forma di sofferenza si entra nella logica dell’internamento. La sfida della residenzialità psichiatrica lo mostra con tutte le evidenze e le contraddizioni: strutture che nascono per contenere un problema (persona-problema forse agli occhi di molti sono la stessa cosa) e che perpetuano residenzialità svuotate di senso e di obiettivi. Mentre le disuguaglianze e le povertà esplodono sotto i nostri occhi, mentre le sofferenze inchiodano operatori all’impotenza e alla responsabilità (è la prima cosa alla quale viene da pensare quando si incontrano giovani e minori in pronto soccorso e nelle corsie della pediatria), le marginalità possono diventare il vero oggetto trasformativo per servizi, per operatori e persone che non si rassegnano alla sfida che l’emergente offre e che non cedono alla tentazione sterile di celebrare ciò che fino a qui era (e non è più).

NOTE
1 S. Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità immaginario rivoluzione, Derive Approdi, 2020, pag. 118
2 B. Saraceno, Salute globale e diritti. Conversazioni sulla cura e la salute mentale, Derive Approdi, 2022 pag. 7
3 WHO Determinanti sociale e salute mentale, 2014
4 B. Saraceno, comunicazione al seminario del 3 novembre 2022
5 V. Lingiardi, Diagnosi e destino, Einaudi, 2018, pag. 14
6 Il CIM è un piccolo collettivo che unisce colleghe dei servizi della salute mentale di età e professionalità differenti; nasce come autoriflessione sul lavoro nella salute mentale, come stimolo nel seguire piste di lavoro inedite e ‘emergenti’; attualmente il CIM è composto da Maria Inglese, Germana Verdoliva, Marianna Cavalli, Emanuela Leuci
7 C. Ginzburg, Occhiacci di legno. Dieci riflessioni sulla distanza, Quodlibet, 2019, pag. 1
8 U. Morelli, G. Varchetta, Francesco Novara. Il lavoro non è più quello di un tempo, Guerini NEXT, 2021
9 A. Marchese è stato ospite dello stesso seminario con Benedetto Saraceno, Franco Floris, portando un focus sul mal-essere delle giovani generazioni; le altre ospiti erano Lelia Pisani e Carla Chiappini
10 S. Geraci, A. Verona Gli invisibili e il diritto al vaccino, Salute Internazionale, 29 marzo 2021