Il commento di Pietro Pellegrini

Peter R. Breggin. La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per medici prescrittori, pazienti e loro famiglie. Fioriti Editore, 2018 [1].

Il testo ha lo scopo di fornire informazioni sulla sospensione degli psicofarmaci partendo da un assunto: “la regolare assunzione di psicofarmaci è estremamente pericolosa” (pag 1).

Se “nel 2010, il 20% della popolazione americana adulta era in trattamento con psicofarmaci: il 15% degli uomini e il 26% delle donne” (pag 11) un invito alla deprescrizione è certamente utile. L’espansione diagnostica conseguente ai DSM e la psicofarmacologia sarebbero alla base dell’epidemia dei disturbi mentali. I farmaci sarebbero, almeno in parte, la causa del problema e purtroppo, il testo, rivolto anche a pazienti e familiari, non riporta le indicazioni, derivanti da Linee Guida, per un loro corretto utilizzo.

D’altra parte Breggin è un medico psichiatra e psicoterapeuta il quale, dopo la formazione anche in ospedale psichiatrico, ammette: “A partire dall’inizio della mia pratica privata, nel 1968, mi sono astenuto dal prescrivere psicofarmaci ai miei pazienti”. (…) L’unica eccezione è la prescrizione occasionale di farmaci per dormire durante una crisi o durante il processo di sospensione”. (…) “Tratto la gamma completa dei pazienti, compresi i pazienti che sono attivamente psicotici, a condizione che siano in grado di recarsi nel mio studio” (pag. 286). A New York ha attivato anche un Centro per gli studi sulla terapia empatica.

Una pratica privata ben diversa da quella del sistema di salute mentale di comunità italiano dove l’impianto è universalistico, accoglie tutti, anche chi non esprime alcuna domanda, ed opera con molteplici interventi in tutti i contesti (dal carcere, al domicilio) in assenza di ospedali psichiatrici, compresi quelli giudiziari chiusi dopo un lungo processo nel quale anche i farmaci hanno avuto un ruolo nella cura, nella riduzione dello stigma, nel facilitare l’inclusione sociale.

In relazione al proprio ambito operativo Breggin propone una cura non farmacologica basata su empatia ed enfatizza la possibile felicità che la liberazione dagli psicofarmaci dovrebbe facilitare. Un’affermazione da dimostrare e che purtroppo è contradetta dall’esperienza di pazienti e di clinici che affrontano molta sofferenza proprio in relazione alla mancata prescrizione/assunzione di farmaci. Quale è l’efficacia di un approccio che tende a rendere residuale fino ad escludere gli psicofarmaci dal bagaglio dello psichiatra, in favore della responsabilizzazione della persona, della famiglia e dei contesti?

I punti chiave del testo sono due:

  1. Il Malfunzionamento cerebrale cronico.
  2. L’effetto incantesimo del farmaco.

“Prescrittori, terapeuti, pazienti e le loro famiglie devono assolutamente rendersi conto dei pericoli associati all’esposizione a lungo termine degli psicofarmaci”. “Il malfunzionamento cerebrale cronico (chronic brain impairment-CBI) può essere causato da qualsiasi trauma cerebrale, compreso l’esposizione per mesi o anni a uno o più psicofarmaci” (pag. 32) ed è caratterizzato da disfunzione cognitiva (deficit nelle funzioni fino alla demenza), apatia/indifferenza e disregolazione affettiva (minore empatia e maggiore irritabilità, rabbia, fino alla mania) e infine la anosognosia per cui i pazienti generalmente non hanno consapevolezza dei loro sintomi di malfunzionamento cerebrale cronico.

Quest’ultima, unitamente all’effetto incantesimo del farmaco, renderebbe la persona che assume psicofarmaci incapace di cogliere il proprio vissuto interiore, di valutare il suo funzionamento mentale e fisico, il comportamento, la qualità della sua vita.

“L’effetto incantesimo del farmaco è causato da tutte le sostanze psicoattive. Può rendere l’individuo incapace di riconoscere o di giudicare gli effetti avversi mentali e comportamentali dei farmaci. L’effetto incantesimo del farmaco può portare a comportamenti pericolosi che sono molto insoliti per l’individuo” (pag. 127). A questo consegue che “i clinici e la rete di supporto devono capire che i pazienti in trattamento spesso credono erroneamente di stare bene o addirittura meglio di prima. In realtà le loro vite sono significativamente e a volte gravemente danneggiate dal farmaco. L’effetto incantesimo del farmaco è frequente durante la sospensione dei farmaci e porta a non riuscire a riconoscere e a valutare le reazioni pericolose della sospensione.” “Sovente i pazienti non riescono a riconoscere quando stanno subendo una pericolosa reazione d’astinenza, inclusi impulsi violenti o suicidari.” (pag. 11).

Il malfunzionamento cerebrale cronico è sempre presente? L’esperienza non evidenzia che vi sono persone che a seguito del trattamento farmacologico riprendono un funzionamento mentale coerente, senza deliri e allucinazioni? Oppure dire che i farmaci funzionano è una conseguenza di una anosognosia e di un effetto incantesimo del paziente e dei suoi terapeuti? Pazienti che sarebbero non attendibili salvo quando riferiscono gli effetti negativi dei farmaci? Questi si possono rappresentare come sostanze in grado di cambiare le persone, di modificarne funzionamento e personalità? Solo altri, familiari e terapeuti sono in grado di dire come sta “realmente” la persona? Se la persona non è attendibile in cosa può consistere, a questo punto, il processo di responsabilizzazione? Di nuovo, questa volta per motivi farmacologici, la persona va posta, per il suo bene s’intende, sotto la sorveglianza di altri?

Malfunzionamento cerebrale e l’effetto incantesimo vanno studiati più dettagliatamente, in ogni persona considerando unica e irripetibile la relazione di cura compresa quella farmacologica.

Studi ampi, approfonditi e indipendenti andrebbero organizzati nel nostro contesto, tenendo conto anche di variabili come etnia, sesso, culture, stili di vita, determinanti sociali e considerando che, nei soggetti drug free, vi possono essere alterazioni primarie, talora comuni ai familiari, non collegate ai farmaci.

La pratica (ma anche le Linee Guida!) indicano un ruolo positivo dei trattamenti farmacologici in un approccio incentrato sulla persona nella comunità con una visione scientifica dei rischi/benefici. In questo quadro le cautele, il monitoraggio attento, il richiamo alla rivalutazione periodica, l’idea di procedere prima con altri interventi educativi, psicosociali, psicoterapici sono ampiamente condivisibili.

“I terapeuti non possono più dare per scontato che una prescrizione una volta data, debba essere seguita dal paziente in modo continuo, e nemmeno che il loro ruolo professionale sia limitato ad incoraggiare l’adesione alla terapia”. (pag. 13) A questo va aggiunta anche l’idea di provare a sospendere i trattamenti, definite le condizioni, valutati i rischi e benefici, gli ostacoli.

Un obiettivo di alta qualità in quanto i Centri di Salute Mentale sono in larga misura impegnati nel raggiungere l’obiettivo dell’adesione. Scrive Lora: “Per quanto riguarda l’appropriatezza dei trattamenti psicofarmacologici, solo la metà dei pazienti con disturbo mentale grave mantiene una terapia con farmaci specifici a sei mesi dalla prima prescrizione nell’anno. Questi dati, in analogia a quelli presenti nella letteratura internazionale, indicano che deve essere posta un’attenzione maggiore da parte dei curanti alla compliance dei pazienti in trattamento, da un lato non sopravvalutandola e dall’altro non sottovalutandone il ruolo importante nella prevenzione delle ricadute.” [2]

Come curare bene chi accetta le cure e come fare accedere e mantenere in terapia coloro che ne hanno bisogno e non aderiscono? Come andare oltre la stabilizzazione in favore di un approccio orientato alla guarigione o per lo meno alla recovery? Disturbi mentali gravi non come condizione cronica ma come acuzie, periodi, fasi, esperienze che si associano sempre alla salute? Una diversa impostazione psicopatologica che può ampliare i trattamenti brevi, intermittenti dei quali però occorre dimostrare l’efficacia. Probabilmente esistono sottopopolazioni di persone accomunate dalla medesima diagnosi categoriale, ma assai diverse sotto il profilo biologico, psicosociale, e occorre chiedersi come giungere a trattamenti altamente personalizzati.

In questi anni, nel lavoro nella comunità si è assistito ad aumento della complessità clinica, familiare, sociale e organizzativa. Gli esordi psicotici, in circa la metà dei casi, vedono un concomitante consumo di sostanze psicoattive talora del tutto sconosciute ai laboratori, e richiedono trattamenti molto complessi dove antipsicotici sono associati a sostitutivi (metadone). Questo implica sorveglianza clinica, esami, ECG, controlli medici e infermieristici frequenti anche in relazione alla condizione di vita (denutrizione, infezioni, gravidanze).

Assai interessante è la riflessione su uso dei farmaci/intossicazione/psicopatologia ed eventuale astinenza: l’attenzione al rischio di suicidio (e delle condotte aggressive) negli adolescenti trattati con antidepressivi e alla loro iperprescrizione nella depressione spesso senza definirne la gravità e la complessità. In altri contesti le carenze assistenziali, come ad esempio nella cura dei pazienti con demenza o con disabilità intellettive, spingono alla prescrizione di psicofarmaci, una prassi che giustamente Breggin stigmatizza.

Il merito del testo è di richiamare l’attenzione sulla possibilità di sospendere i farmaci, considerato un processo delicato, difficile e da condurre quindi con molta attenzione. Al contempo ha il pregio di stimolare interventi psicoterapici, educativi e sociali. Un richiamo utile, specie in questa fase nella quale si avverte una spinta alla medicalizzazione/psichiatrizzazione del disagio anche nei bambini e adolescenti.

Quando sospendere? Il libro indica le condizioni migliori (motivazione, ecc.) e dà utili indirizzi pratici su quale farmaco ridurre prima, la tempistica, sempre da personalizzare e dà utili riferimenti a letteratura (ad esempio il “The Ashton Manual” per le Benzodiazepine) o a manuali per gli utenti.

Evidenzia anche gli ostacoli. “Nella mia esperienza, la mancanza di un supporto familiare o della rete sociale è l’ostacolo più difficile per poter procedere alla sospensione” (pag. 17). Precisazioni importanti per aderire alle condizioni reali delle persone e attuare i necessari monitoraggi, prevenzione sindrome metabolica (presente nel 40,9-42,7% dei pazienti; pag. 65), stili di vita, alimentazione, screening, vaccinazioni. Tutti interventi che possono migliorare se accompagnati da attenzioni ai determinanti sociali della salute a partire dal reddito, alloggio, lavoro. Così si può giungere ad una modulazione nel tempo della terapia compresa quella farmacologica. Per superare una tendenza, spesso comune a medico e paziente, al mantenimento delle stesse terapie sono molto utili i riferimenti per la deprescrizione/riduzione possibile: team, supporti, disponibilità (anche del cellulare), empatia, fiducia e speranza nel cambiamento. Un team composto da tutti i professionisti, pazienti e la loro rete sociale di familiari e amici che sappia affrontare non solo le patologie, il funzionamento ma sia sempre attento ai bisogni e desideri (pag 14) della persona, protagonista insieme ai pari non solo della sua cura ma della propria vita.

Bibliografia

1Breggin PR. La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per medici prescrittori, pazienti e loro famiglie. Fioriti Editore, 2018.
Traduzione: Laura Guerra (Ed. orig. Psychiatric Drug Withdrawal. A Guide for Prescribers, Therapist, Patients, and Their Families. First edition, Springer Publishing Company New York, 2013).

2Lora A, Monzani E (a cura di). La qualità della cura nei disturbi mentali gravi in Lombardia [PDF: 1,6 Mb]. Eupolis, Lombardia, 2015.