L’articolo pubblicato nelle scorse settimane da Jama Psychiatry, di cui offriamo una sintesi in italiano, sottolinea la distanza che ancora esiste tra i principi della “recovery” e la pratica della maggioranza dei professionisti, che – in genere – non hanno dubbi nel definirsi “recovery-oriented”.

I sei principi fondamentali dello Shared Decision Making (SDM), con cui l’articolo si apre, potrebbero rappresentare una sorta di stimolo ad una supervisione di quanto accade quotidianamente nella relazione con i fruitori dell’assistenza psichiatrica. In particolare, con quelli che soffrono di un disturbo mentale grave (SMI), e con i loro familiari. Non a caso, la sollecitazione ad effettuare un audit sulle modalità di utilizzo degli antipsicotici nei DSM della Regione Emilia Romagna è nata, alcuni anni fa, da questa esperienza di esclusione (dei diretti interessati) dalle decisioni riguardanti, in particolare, i trattamenti farmacologici.
I sei principi proposti dall’articolo pongono in evidenza che la personalizzazione del progetto terapeutico è certamente necessaria, come pratica “recovery-oriented”, ma non è sufficiente, se non si accompagna ad uno degli elementi chiave di quello che va sotto il nome di “empowerment”: la condivisione effettiva con i diretti interessati delle decisioni terapeutiche, comprese quelle farmacologiche.
Infatti, la traduzione in italiano di “empowerment” è sempre risultata difficile, ma la sua traduzione nella pratica quotidiana risulta ancora più difficile, per le barriere che l’articolo esplora; in particolare, quelle sul lato dei professionisti (anche se vengono messe a fuoco anche alcune di quelle che riguardano i diretti interessati).

Queste barriere, esaminate nell’articolo, contribuiscono – anche in Italia – al prevalere di processi decisionali a carattere paternalistico. Esse vanno riconosciute e contrastate, perché si trasformano, inevitabilmente, in un ostacolo alla comunicazione trasparente tra professionisti della salute mentale e diretti interessati. Esse favoriscono, inoltre, la spinta a decisioni unilaterali, che sono fortemente controproducenti, a prescindere da chi le assume (professionisti o diretti interessati).
La Legge 219/17 su consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento ha ulteriormente contribuito a confermare il diritto costituzionale di ognuno di noi, e di ognuno dei nostri assistiti, a considerarsi proprietari delle decisioni sanitarie che li riguardano; la delega ad una terza persona è possibile solo nei momenti in cui venga meno la capacità di autodeterminarsi.
Lo stimolo rappresentato da questa Legge, unito alla tradizione già esistente in campo psichiatrico cui fa riferimento anche l’articolo (direttive anticipate di trattamento, joint crisi planning, contratti di Ulisse) può consentire il superamento della prospettiva paternalistica, soprattutto in alcune situazioni che sono al centro della pratica quotidiana “recovery-oriented”: il contrasto attivo alle scelte coercitive, la prevenzione delle recidive e i percorsi di de-prescrizione.

Come suggeriscono gli autori dell’articolo, queste strategie di negoziazione democratica con i diretti interessati, che portino a decisioni coerenti con le loro preferenze, ma che contemplino anche i rischi connessi alle scelte condivise, vanno approfondite nei percorsi di formazione e di aggiornamento di tutti i professionisti della salute mentale (con una particolare attenzione agli psichiatri, che possono imparare a cogliere i vantaggi dello SDM sul piano della condivisione oggettiva, con paziente e familiari, di quella responsabilità che diventa un pesante fardello, se viene assunta nei termini – spesso minacciosi – di una responsabilità personale).

Zisman-Ilani, Y., Roth R.M., Mistler L.A. Time to Support Extensive Implementation of Shared Decision Making in Psychiatry, Jamapsychiatry Aug. 1, 2021
doi: 10.1001/jamapsychiatry.2021.2247

Lo Shared Decision Making (SDM) rappresenta, nella comunicazione sanitaria, un approccio che concentra la propria attenzione sulle forme di interazione tra professionisti sanitari e pazienti rispetto alle decisioni terapeutiche, con l’obiettivo sia di migliorare gli esiti clinici e quelli funzionali sia di garantire un’assistenza personalizzata.

I principi fondamentali dello SDM hanno a che fare con:

  1. l’eliminazione delle asimmetrie di potere tra professionisti e pazienti;
  2. il riconoscimento del fatto che sono sempre presenti almeno due esperti: un paziente con conoscenze che derivano dall’esperienza ed un professionista con conoscenze su base professionale; qualche volta, anche un terzo esperto, cioè un familiare;
  3. la necessaria verifica delle preferenze del paziente per un suo effettivo coinvolgimento nel processo decisionale, come pure la verifica attenta delle priorità del paziente, che possono influenzare la decisione da prendere (ad es. la riduzione degli effetti indesiderati);
  4. la valutazione, con l’interessato, di almeno due possibili opzioni (assunzione regolare, graduale riduzione o sospensione dell’antipsicotico);
  5. la scelta di un’opzione specifica, che sia in linea con le preferenze, gli obiettivi e le priorità del paziente, ma che renda espliciti anche i rischi connessi all’opzione adottata;
  6. l’accettazione del fatto che la scelta operata dal paziente possa essere diversa da quella consigliata dal professionista. (…)

Gli studi condotti negli ultimi dieci anni su persone con disturbi mentali gravi (Severe Mental Illness – SMI), che hanno messo in luce la adottabilità dello SDM e i suoi effetti in termini di miglioramento degli esiti, hanno fatto da base per il suo riconoscimento come pratica psichiatrica essenziale da parte dell’American Psychiatric Aassociation (APA) e dell’Amministrazione della Salute Mentale (SAMHS) statunitense.
Nonostante il contributo positivo che può venire dal SDM, esso è ancora lontano dall’essere adottato con successo nella pratica psichiatrica routinaria, soprattutto nei processi decisionali che riguardano i pazienti con disturbi mentali gravi (SMI). Sono state individuate numerose barriere alla sua adozione (a livello del paziente, dei professionisti, dell’organizzazione dei servizi), ma non sono state fatte oggetto di iniziative specifiche, se non parzialmente. (…)

Le barriere a livello dei professionisti sono state analizzate assai poco. Poiché gli psichiatri giocano un ruolo essenziale nello SDM lo scopo di questo contributo è proprio di affrontare queste specifiche barriere, che possono essere descritte come “l’elefante nella stanza”, che impedisce un’ampia adozione dello SDM in psichiatria.

A. Le convinzioni sulle difficoltà cognitive e sulle capacità del paziente di partecipare allo SDM.
Le ricerche fin qui condotte mettono in evidenza che la barriera principale che limita i professionisti della salute mentale nel proporre lo SDM ai pazienti con disturbi mentali gravi è la loro convinzione che il paziente abbia limitate capacità decisionali e che presenti dei deficit sia sul versante cognitivo che motivazionale. Queste convinzioni sono prevalentemente presenti nel rapporto con pazienti con SMI, a differenza di quanto accade con i pazienti che non soffrono di patologie psichiatriche. (….)

B. Stigmatizzazione e discriminazione nell’adozione dello SDM
Formulare la convinzione che i pazienti che soffrono di disturbi mentali gravi non possano essere coinvolti nello SDM per le loro limitazioni cognitive è una forma di stigmatizzazione, che può portare a una discriminazione non intenzionale nell’offrire loro lo SDM. Per discriminazione intendiamo offrire trattamenti diversi a qualcuno sulla base di convinzioni stigmatizzanti. Alcuni studi hanno messo in luce che elevati livelli di (auto) stigmatizzazione nei pazienti, e nei loro familiari, determina una loro minore propensione a partecipare ai processi decisionali e allo SDM, favorendo quindi processi decisionali più paternalistici. Rimane ancora poco studiato l’impatto dello stigma sui professionisti della salute mentale.

C. La possibilità di trattamenti coercitivi
(…) Il potere di imporre trattamenti in forma coercitiva contraddice, evidentemente, con il principio della eliminazione delle asimmetrie di potere tra professionisti e pazienti, e rappresenta un chiaro ostacolo alla attivazione dello SDM. Gli psichiatri potrebbero anche non essere consapevoli di quanto questa asimmetria condizioni la loro relazione con i propri pazienti, ma essa può favorire la riluttanza dei pazienti a proporre lo SDM, per il timore – se mostrano di non essere d’accordo con le terapie proposte – di perdere la propria libertà, o i benefici economici, o le forme di sostegno sociale che ricevono.
(…)
Per introdurre a pieno titolo lo SDM nella pratica psichiatrica routinaria, le nostre raccomandazioni sono essenzialmente tre. La prima è che esso diventi parte integrante dei percorsi di formazione e di training in campo sanitario. Sia gli studenti che gli specializzandi hanno bisogno di conoscere sia l’importanza che le sfide connesse al ricorso dello SDM in salute mentale, e hanno bisogno di acquisire le capacità specifiche che possono consentire loro di adottarle nella pratica con pazienti che soffrono di disturbi mentali gravi. (…).
La seconda raccomandazione è che il ricorso allo SDM debba diventare parte integrante dei processi di condivisione delle responsabilità tra pazienti e professionisti della salute mentale, al fine di offrire un’assistenza psichiatrica orientata alla recovery, evitando qualsiasi rischio di danni ai diretti interessati. Tradizionalmente, la responsabilità veniva a cadere esclusivamente sugli psichiatri, e ciò ha favorito (e favorisce ancora, spesso – ndT) le scelte coercitive. Un concetto chiave dello SDM è l’esistenza di uno “spazio condiviso” da paziente e professionista in cui ognuno dei due partecipa con la propria specifica competenza (expertise). Il ricorso allo SDM per la stesura di una direttiva anticipata di trattamento (cioè di un contratto scritto “ora per allora”, che può assumere la forma di un contratto di Ulisse, o di una Disposizione Anticipata di Trattamento – ndT) che specifichi quali siano le preferenze del paziente nel caso in cui venisse meno, per il riemergere di una crisi, la sua capacità di autodeterminarsi, può contribuire a ridurre – o a escludere – scelte coercitive. Si può cioè trasformare una scelta potenzialmente coercitiva in una scelta preliminarmente condivisa.
La terza raccomandazione è la promozione di studi che esplorino il rapporto tra l’adozione e gli esiti dello SDM e il funzionamento cognitivo e motivazionale (in termini di riflesso sulle capacità decisionali). Non siamo a conoscenza di alcuna ricerca che abbia approfondito questo rapporto. (…)

Riferimenti bibliografici:

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  3. A. Piazza, G. Tibaldi, A. Koci, A. Saponaro & Gruppo lavoro “Audit Farmaci Antipsicotici” L’impiego dei farmaci antipsicotici nei Centri di Salute Mentale Una valutazione condivisa tra professionisti, utenti e familiari. Sestante 2018, 5: 28-31
  4. G. Tibaldi I nuovi diritti di cittadinanza. La legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento e le sue possibili applicazioni condivise, in salute mentale. 2018, Sestante 6: 3-9
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  8. Collettivo Modenese Le Parole Ritrovate. E adesso parliamo noi. Terapia al bisogno per i pregiudizi. Sensibili alle Foglie, Roma, 2018